BLACK HAWK DOWN

Il sole continua a splendere ignorando i disastri della guerra, la notte continua a scendere nel tempo della fame.

Se non è mai facile distinguere le ragioni dal torto, questa volta, almeno per me, non è così. Questo film prende spunto da un pezzo di Storia recente. Storia il cui ricordo degli accadimenti e del relativo significato è stato letteralmente vaporizzato, o meglio, vista l’ambientazione, polverizzato. Come se non fosse mai successo. Probabilmente travolto, surclassato, annichilito da avvenimenti più importanti. Siamo stati spettatori, attraverso la televisione, di quelle sequenze da video-game proposto con le ombre che si muovono su di un fondale verdino, con illuminanti e sinistri squarci di bianco sul teleschermo. La guerra in Iraq ai raggi infrarossi. I bombardamenti nella notte colorata di “verde”.

Qualcuno, forse pochissimi tra l’occidentale medio, si ricorda della guerra in Somalia. Ma, a dire il vero, anche, come canta Manu Chao nella sua ultima “Rainin in paradize” ,della Monrovia, Congo o Zaire, Sudan (meglio dire Darfur) e delle molte guerre di Serie B, soprattutto dell’Africa. Della missione umanitaria iniziata dall’ONU all’inizio degli anni novanta per salvare il paese da una tremenda carestia e che ben presto si è trasformata in una vera e propria guerra. Da una parte le forze militari ONU impegnate in missione umanitaria (Restore Hope), dall’altra le bande armate somale. L’escalation militare che comportò l’invio da parte degli Stati Uniti di truppe scelte quali i Rangers (badate bene, non Marines) e la Delta Force per cercare di riportare ordine all’interno di un paese allo sbando. Dai sacchi di derrate alimentari con la bandiera azzurro stellata si passò ben presto a proiettili ed elicotteri recanti la figura a stelle e strisce. Dai servizi televisivi che mostravano in diretta un fittizio ed imbarazzante sbarco di soldati, perfettamente attrezzati e splendidamente vestiti ton sur ton, sulle coste somale agli scontri veri e propri. Fino alla cosiddetta “Battaglia di Mogadiscio”. Iniziata per impedire che le derrate alimentari finissero nelle mani sbagliate. Quelle dei feroci “Signori della guerra” e delle loro milizie. Una ferita ancora aperta ma ormai passata nell’oblio. Così come tutta l’operazione somala.

Si, perchè il film in questione, del regista Ridley Scott (presentazioni inutili, nevvero?) è tratto dal libro che ripercorre la vera storia della “Battaglia di Mogadiscio”,  con l’impegno americano (Presidente Bill Clinton, passato alla storia per i sigari e le stagiste, rigorosamente serviti insieme) in una terra senza petrolio (ricordi, anima bella?) e analizza sotto la lente di ingrandimento, come già ampiamente detto, un singolo episodio della “guerriglia” somala. E il titolo nasce dal rafforzamento dell’uso della simbologia racchiusa nell’abbattimento dell’affidabile macchina da guerra volante, potente simbolo della superiorità tecnologica che protegge dal cielo la missione dei soldati, simbolo anche cinematografico della onnipotenza militare statunitense (come non ricordarsi della cavalleria volante di APOCALYPSE NOW), e poi di un’altro, cosa che fa dire al Gen. Garrison (Sam Shepard), dalla sua saletta di regia: “Abbiamo perso l’iniziativa”. Costretti alla difensiva. Trascinati allo scontro sul terreno.

Somalia, 3 ottobre 1993. Elmetto ben calzato, giubetto antischegge e controllare la dotazione. E’ un war-movie. Formazione di copertura. Occhi aperti. In marcia.

Dopo i 15 minuti iniziali, utili per godere della visione di un Oceano Indiano bello e pericoloso, inizia il tutto. Lo sbarco dei Rangers comincia male per il Sergente Eversmann (Josh Hartnett): il soldato Todd Blackburn cade dall’elicottero mancando la corda (il pilota dell’elicottero è costretto a virare bruscamente per evitare un razzo di un RPG, un lanciagranate a spalla di fabbricazione sovietica nda). ”Uomo a terra. Uomo a terra”. Ed è solo l’inizio. Eversmann è costretto a portare subito il ferito all’edificio obiettivo e poi ritornare in postazione. Ma le cose si mettono male quando il Black Hawk di Wolkott viene abbattuto. Eversmann e i suoi devono andare sul luogo dell’impatto per soccorrere i caduti lasciando due uomini in posizione in attesa delle Jeep, che non arriveranno mai. Costringendo i due soldati, una volta accortisi di essere stati “dimenticati”,ad attraversare la città da soli, per ricongiungersi agli altri. Tutti i Rangers dovranno confluire sul luogo d’impatto.

Purtroppo le Jeep dovrebbero andare ancora a riprendere i feriti del Black Hawk ma la città è ormai in stato di guerra ed è fallito l’effetto sorpresa. Il gruppo di Eversmann riesce ad arrivare al punto d’impatto in attesa dell’elicottero dei soccorsi.

Il cap. Steele e gli altri invece sono in difficoltà e non riusciranno ad arrivare al luogo dell'impatto. Anche la colonna di jeep guidati dal colonello dei Rangers McNight (Tom Sizemore) dopo vari tentativi, effettuati sotto la pressione nemica mentre attraversa i vicoli, non riesce a raggiungere il luogo d’impatto e, per i troppi feriti, deve rientrare alla base. Anche il Black Hawk di Durant viene abbattuto ed egli è l’unico a sopravvivere alla caduta. Dal loro elicottero due tiratori scelti della Delta, Shughart e Gordon, si prestano volontari e scendono a terra per coprire il Black Hawk. Moriranno nell’azione disperata e, probabilmente, persa in partenza, mentre Durant (il pilota)sarà catturato.

I Rangers e i Delta sono costretti così a passare la notte asserragliati nella capitale disastrata da fame e bombe.Il comando dovrà chiedere , tra gli imbarazzi comprensibili e facilmente immaginabili, aiuto ai pakistani che dispongono di mezzi blindati. Alla fine, verranno portati via.

L’azione che doveva durare trenta minuti durerà quindici ore e costerà la vita a 19 soldati americani e più di mille somali (compresi, si immagina, civili). I Sergenti della Delta Force Gary Gordon e Randy Shughart saranno i primi soldati americani a ricevere la medaglia d’onore dopo la fine della guerra del Vietnam. Michael Durant verrà rilasciato undici giorni dopo la cattura.

Dialoghi da semiologia spicciola, come da genere (filmico), anche perchè i soldati non conoscono il mito di Edipo o l’Orestiade di Eschilo. Ma acuminate come rostro. Molto rumore. Ma se volete dormire vi posso consigliare, a gratis, “Aprile” di Nan(n)i Moretti. Con me ha funzionato meglio di una intramuscolo di valeriana. Ma con questo film eviterete l’imbarazzante situazione di trovarvi costretti a mendicare, per tirarvi su, una striscia di cocaina ai vicini di casa. Non si fa. Mendicare, dico.

Black Hawk Down non racconta, non spiega, nè tenta di farlo, nulla. E’ solo la rappresentazione della guerra moderna.

La guerra rappresentata nel puro agire delle cose e degli uomini, nel movimento caotico degli stessi, con gli ordini urlati nel fragore delle armi automatiche. Con azione e reazione, onda e risacca. Con le gerarchie tenute in piedi a fatica nell’incalzare caotico della battaglia. Con la lucidità che si sbriciola sotto il peso della paura. Che tutti i soldati provano, perchè tesa alla conservazione fisica. Il coraggio è teso alla conservazione morale (Von Clausewitz nda).

Con la sulmafide a debellare le infezioni. Il plasma a salvare vite. La morfina a smorzare le urla.
Non cercate contenuto, dicevo, nel film. Troverete invece, una ammirazione estetica dell’azione di guerra, un solido cameratismo (”Nessuno resterà indietro”, neanche i caduti.E’ il motto dei Rangers) e una blanda condanna del dolore provocato da tutte le guerre. Impalpabile. Eterea. Che rende meglio visibili tutta una serie di contrasti che il film pone in fila indiana, senza parlarne. Con la politica, che dispone, e i militari, che operano con il bisturi nel corpo malato della realtà del campo; la lotta dei ricchi (tonnellate di viveri e attrezzature, fortini in mezzo al nulla) contro i poveri, dei bianchi contro i neri, dell’asettico e tecnologico mondo (post)moderno che si scontra con il barbaro e sanguigno mondo (pre)medioevale dell’Africa nera;la differenza tra guerra come scontro tra eserciti regolari e guerriglia come lotta tra irregolari e gruppi scelti; lo scontro razziale tra un esercito di elite formato quasi esclusivamente da bianchi e un gruppo di uomini neri male addestrati, circondati dalla fame ma armati sino ai denti, di quelle micidiali armi inventate dal caro compagno Mikhail Timofeevich Kalashnikov e proprie di ogni esercito di straccioni. Un arma che fa dell’affidabilità il suo pregio principale. Talmente affidabile che può trasformare un bambino, o una scimmia, in un combattente. Non un “soldato”. Vi chiedo di fare attenzione alle parole : combattente.

Contrapposti alla figura del “Soldato”. Quell’uomo, quel cittadino, che ha il compito di saper usare, gestire e dominare la violenza. Il soldato non è un selvaggio. Ed è frutto della superiorità di una civiltà che non solo sa che la violenza è inevitabile, ma pure ha coscienza del fatto che essa deve essere usata, misurata, controllata e infine spenta in modo ordinato quando di essa non si abbia più bisogno. Una società che non sappia più l’arte del soldato, che non sappia entrare in contatto con la violenza e dominarla, rischia di essere impotente, cioè di essere spazzata via dalla Storia. E la Storia, ci piaccia o no, continua a tingere la sua tela con i colori della violenza. Che rimane, ad ardere nella vita degli uomini, anche se facciamo finta di non vederla. Trasformarla in un semplice tabù non ci salverà.

I francesi dicono: à la guerre comme à la guerre. E vuol dire che non si può andare in guerra preparati come ad una passeggiata di primavera. Da tempo, invece, noi occidentali nascondiamo le nostre guerre sotto la sabbia ipocrita degli ideali umanitari, della pace. Facendo apparire il soldato con le vesti azzurre del poliziotto Onu o con la maglietta multicolore del portatore di pace. Con la pretesa di vincere senza sparare un colpo. Con micidiali bordate di aria fritta. In Italia, con fenomenale esercizio di trombonismo sociopolitico veltronian-sinistrese. Popolo di eroi, non di eserciti.

Alcuni hanno paragonato BLACK HAWK DOWN al film britannico ZULU DAWN (1979, Burt Lancaster e Peter O’Toole, tra gli altri) , paragone dettato dalla similitudine delle sconfitte (la cocente sconfitta del “moderno” esercito britannico contro la massa Zulu ad Isandlwana. 22 gennaio 1879). Anche qui il nemico è un branco senza individualità (magari qualcuno, quando scende dalle “tecniche”, le jeep armate tipiche di quell’area del Corno d’Africa, sembra più un esponente delle gangs di Los Angeles), motivato soltanto a uccidere ; i soldati bianchi si asserragliano in un fortino e, alla fine, arrivano i nostri. La perizia registica di Ridley Scott, che racconta in uno stile asciutto e pure concitato una drammatica storia vera che segnò una clamorosa disfatta per gli USA, è fuori discussione; la suspense che s’instaura nella prima parte, è efficace.

Anche se qui e là, il film sparge pillole di umanitarismo, è un war-movie da capo a fondo: senza un solo personaggio femminile, non un melodramma d’amore travestito da storia bellica quale era, per esempio, ‘Pearl Harbour’”.

Per stomaci forti. Per chi, come me, cerca di evitare le esaltazioni mistiche del bellicismo senza cadere nelle illusioni delle anime belle.

“….cavalli e cavalieri a combattere in un vortice di polvere tra alberi frondosi, sotto cieli screziati di nuvole dorate….”

Altri tempi. Buona visione.