MILLION DOLLAR BABY

Un film sulla boxe.
Los Angeles. Senza palme. Senza iperpalestrati passeggianti su spiagge assolate unti da crema cascata a catinelle.

Lo stagionato (in questi casi si aggiunge sempre disilluso), rugoso e perdente allenatore di boxe Frankie Dunn (monumentale Clint Eastwood) annegato nella polvere di un ripostiglio chiamato palestra, del più vecchio e storto Scrap (Morgan Freeman, con tutto il mestiere che può). Con il clichè del nero vecchio e buono. Avviato in modalità taciturna. Solo nelle scene, visto che fa anche da voce fuori campo. Narrante.

Frankie, dicevamo. Il dolore di una vita portato dentro. Lacerante e sommesso. Sommesso e straziante. Sopportato come solo gli uomini possono portarlo e senza la possibilità di avere sollievo nemmeno in Chiesa: da ventitré anni la figlia respinge le sue lettere. Pensateci, se padri, per un attimo. Fatto? Dovrebbe bastare.

Quindi, ricapitolando, un film sull’amore, sulla solitudine e sull’amicizia. E siamo solo all’inizio.
Il terzo personaggio entra in gioco per iniziare la storia americana, classica se vogliamo, di rivincita sulla vita, sulla società, sulla vicina di casa.

L’angelo in cerca del suo lontano “ALTROVE” è una donna zavorrata dalla povertà, da una famiglia disastrata . Con l’altro cliché dello sport (in questo caso del pugilato) usato come locomotiva. Dai margini della società alle prime file, senza passare per serate dentro sconclusionati Grandi Fratelli o passare pomeriggi da zoccole per tronisti. Nel paese che poggia i suoi basamenti sul fatto che ciò sia possibile. Anche e soprattutto con colpi duri. Perché sei abituato a prenderli e adesso muori dalla voglia di ridarli. E puoi anche morire per ridarli.




Maggie Fitzgeral è una donna (Hilary Swank). E Frankie dice subito di no all’aspirante pugile che gli chiede di allenarla: nessuna donna. E poi a trentun anni sei vecchia per prendere pugni. Ma certe donne sanno essere testarde come solo le donne sanno essere e anche un orso può essere sfiancato e i suoi no sgretolati.

E poi l’amico sarà pure vecchio, ma l’esperienza è l’unica cosa che il tempo ti regala mentre provvede ad ammazzarti. Perché diciamo di ammazzare il tempo come se non sapessimo che è il tempo che provvede ad ammazzare noi. E l’occhio (clinico), per fortuna, non invecchia.

E via alla scalata, dopo infiniti allenamenti e punching ball seguito dal punching ball…. e ancora punching ball. Per non sbagliare. Perché il capo ha paura di mandarla al macello.
E poi il ring. E pugni dati (molti) e presi (pochi, ma bastevoli per nasi rotti e occhi anneriti).

Ma il destino, cinico e baro (si dice così, vero?) è in agguato. E ha la faccia grugnente di una pugilessa “crucca”, che sta dietro la collina. Crucca e assassina. A tradimento. Non farete fatica a concentrare nella sua figura tutto il male possibile.

E così Clint piazza a tradimento quella famigerata, infame, lacerante, crudele, ultima mezz’ora. Quella che ti colpisce sotto la cintura.

E che ti lascia tanta amarezza nell’infinita dolcezza di Frankie.

E il finale, asciutto e tragico. “Dobbiamo amputare”, la sentenza senza appello.

E così all’amore, alla solitudine, all’amicizia aggiungerete l’aggiunta di problematiche difficili e controverse come la fede e l’eutanasia. Con semplicità, senza riccioli rococò o puttanate da beat generation.

Se in un tema non certo originale versi attori fuoriserie (Oscar a Morgan Freeman e Hilary Swank, più film e regia), aggiungi i grandi sentimenti e le problematiche suddette e mischi con lo stile asciutto di Clint Eastwood non puoi non ottenere che un capolavoro.

Io non sono il tipo da recensioni con le mutande bagnate.
Ma.
Un film sulla boxe. E le lacrime mi hanno annacquato il gin.